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Lezioni di cannibalismo: Wrong Turn 4

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Non so da che parte iniziare per tessere gli elogi di questo film. Dopo Wrong Turn 2 Declan O’Brien ha preso un materiale ormai cotto – per usare un’attinente metafora culinaria – e l’ha completamente ricucinato. Wrong Turn 3 già suscitava entusiasmo per alcuni colpi formidabili, tra cui l’inizio che richiamava la brutalità primigenia di Un tranquillo week end di paura (con analogo rimando all’osso sporgente bianco come un sasso) e la supertettona mora trafitta due volte dalla freccia (neanche il tempo di mostrare le pere!), la prima trapassata nella schiena, la seconda nell’occhio spappolato con un colpo degno di Occhio di Falco (Overlook).
Wrong Turn 3 colpiva anche per un elemento che in questo quarto episodio è reso al massimo della sua potenza espressiva: i suoni e i rumori organici. Rumori di masticazione, di spappolamento, di fratture ossee, di carne tranciata, masticata, lappata, tritata, strizzata… Una trionfale sinfonia carnivora, un visionario delirio acustico. Rumori di ossa che scoppiano, di vene che si spiaccicano, di muscoli che si frantumano, di membra che si smembrano, di carni che si spolpano. Rumori che provengono dalle carni dei martoriati malcapitati (bianchi o neri, poveri o ricchi, fighi o imbranati, etero o lesbo non fa più nessuna differenza, negli slasher canonici almeno uno si salva, qui è MTI – Massacro Totale Indifferenziato), e rumori che via via si propagano e dilagano fino a perdere un centro di riferimento reale per estendersi al di là di ogni possibile evento, fino a incarnare il rumore masticatorio originario di ogni organismo dell’universo. Un trionfo acusmatico. (Dio, erano anni che volevo usare questa parola!)
Declan O’Brien è davvero bravo, quanto il mio amato Dan O’Bannon del Ritorno dei morti viventi, un altro che rimanipolò genialmente una saga horror (e si tagliò, tra Alien e fughe chimiche zombiche, una bella fetta d’immaginario fantahorror). O’Brien dev’essere un cinestesico, deve avere bisogno di sentire il rumore delle carni che si rompono. E lo fa sentire, udire e percepire nelle ossa e nello stomaco, come mai prima mi era capitato. È qualcosa che davvero sembra oltrepassare il tempo e spingersi verso il significato nascosto di questa saga cannibale: la sua primordiale brutalità. Siamo in una dimensione preculturale, dove il linguaggio non esisteva ancora e gli unici rumori erano quelli delle carni spezzate, delle ossa frantumate e della carne divorata cruda, gli unici suoni di una terra preistorica, come l’alba dell’uomo di 2001: Odissea nello spazio; la carne macellata assume qui un valore brutalmente antropologico, primordiale e selvaggio come lo smembramento dell’alce in Into the Wild o quello della tartaruga in Cannibal Holocaust (in entrambi i casi però l’azione assumeva un significato simbolico, quello di punto di non ritorno), come l’allenamento di Rocky nella macelleria in Rocky 1 o come Mike Tyson che strappa l’orecchio a morsi a Holyfield.

Una persona felice di avere incontrato i nostri protagonisti

Questi “contadini del West Virginia incestuosi e cannibalici” (ma con un sistema immunitario mostruoso, una soglia del dolore degna di Darkman e sempre più afflitti dal trucco peggiore della storia del cinema, sembrano aver usato quello residuo di qualche film post-apocalittico italiano, più Bruno Mattei che Umberto Lenzi), genialmente manipolati da Declan O’Brien, hanno qualcosa di letteralmente crudo nel loro insaziabile divorare che altre serie analoghe non hanno, o almeno non conosco, condizionate o da morali e simbolismi (Le colline hanno gli occhi) o da mediazioni culturali (la tortura-enigma in Saw e la tortura per milionari tra Society e The Most Dangerous Game in Hostel). Forse l’Eli Roth di Cabin Fever ci si avvicina un po’, ma dovrei riguardarlo perché non me lo ricordo. Qualcuno potrebbe sostenerne la dimensione mitica, o arcaico-ritualistica… la “violenza e il sacro” di René Girard. Mi pare ci sia un rimando chiaro al mito dionisiaco, al desiderio di annientamento proprio del furore di Dioniso, nello smembramento che le infuriate “baccanti” attuano involontariamente su un loro compagno scambiandolo per un cannibale. Per il resto direi che siamo ben prima del mito e di qualsiasi dimensione ritualistica, prima di qualsiasi idea religioso-sacrificale, nella dimensione appunto puramente antropologica della fame, una fame biologica, una fame cellulare priva di qualsiasi forma d’influenza o seppur primitiva mediazione culturale. Cosa intendo per mediazione culturale? Penso al cannibalismo civilizzato del visivo Greenaway nel Cuoco, il ladro, la moglie e l’amante, con le simmetrie mangiare-leggere, mangiare-sesso orale. In quel caso la mediazione culturale della cucina vince sulla brutalità sarcofaga del Ladro (“Primo lo ammazzo, poi me lo mangio”) trasformando il cannibalismo in cultura, con il banchetto finale dell’uomo al forno con pene flambé. Hannibal Lecter s’attesta come supremo gourmet-cannibale-intellettuale, che mangi cervelli o fegati col Chianti (tema ripreso in Hostel). Aspettiamo a questo punto Cannibal Master Chef o programmi di nouvelle cannibal cuisine.

Jamie Oliver e Gordon Ramsey

Per i cannibali di O’Brien è tutto l’opposto ed è questo che i nostri malcapitati non capiscono: la pressione sociale è talmente forte che i malcapitati riescono perfino a rinchiudere i cannibali in una cella e invece di massacrarli o dargli fuoco non ti si mettono a ristrimpellare la solita solfa “Noi non siamo come loro noi non uccidiamo?” E infatti quelli si liberano e li massacrano TUTTI! Pirla! Non avete capito che questi hanno semplicemente FAME? E se c’è da mangiare mangiano, poche storie. Come direbbe Tuco: “Se si mangia si mangia, non si chiacchiera”. Quando i cannibali entrano in azione sono un po’ i MacGyver dello splatter, allestiscono congegni improvvisati con qualunque cosa si ritrovino fra le mani pur di affettare, sventrare, frantumare, spappolare la vittima. Qui assistiamo addirittura a un pranzo in piena regola, con carne umana vivente, cipolla e patate (forse le patate non ci sono). Soffritto e tranciatura al vivo d’organi – del resto gli ingredienti vanno freschi e biologici. (“Lo stanno mangiando ancora vivo come se fosse una cazzo di fonduta!” – che il film sia in fondo un formidabile inno al vegetarianismo, ben più sottile e grottesco di quello di Wrong Turn 2? D’altra parte siamo noi i maiali, perché di un uomo fatto a fette non si butta via niente.) Un dito mangiato di soppiatto (come facciamo noi quando smangiucchiamo preparando la cena) va di traverso a un cannibale, sta per soffocarlo, gli altri due lo soccorrono e glielo fanno sputare. Pura comicità slapstick.
In Wrong Turn 4 Declan O’Brien fa scintille. In mezzo a massacri degni del più splatter dei z-movie si permette di citare due volte Stanley Kubrick, con il valzer di Strauss (2001) nel prologo iniziale e con l’originalissima ambientazione stile Shining (Overlook Hotel, in onore alla pietanza preferita del cannibale con l’occhio penzolante, occhi umani sushi).
Non mi divertivo e non provavo così disgusto dai tempi della zuppa di vomito aliena e del cervello in fuga dalla scatola cranica di Peter Jackson in Bad Taste. Allo stesso tempo c’era qualcosa di così esaltante che mi ha preso la testa, lo stomaco e il cuore. Anche perché non pago di averci regalato disgusto, orrore e divertimento, O’Brien ci regala uno dei finali più romantici della storia del cinema.
Insomma, penso seriamente che questo film sia un capolavoro.

Declan O'Brien e un suo simpatico amico

P.S.: Strani influssi kubrickiani: l’inizio del remake delle Colline hanno gli occhi è un omaggio al Dottor Stranamore.

P.S. 2: Comunque il miglior momento di cannibalismo culinario secondo me restano le dita fritte servite nel Ristorante all’angolo.

Dvd-quote

“Questo O’Brien ha le palle.”
Jean-Luc Merenda, i400calci.com

>> IMDb | Trailer


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